Relazioni tenute al MEIC di Reggio Calabria il 29 e il 30 maggio 2010 (Seconda Parte)
Seconda relazione
Agostino e l’interpretazione dell’ episodio del giovane ricco
Premessa
Nella immensa mole della produzione letteraria del Vescovo d’Ippona, la maggior parte dei riferimenti all’episodio del giovane ricco sono presenti negli scritti che raccolgono la sua predicazione, vale a dire, i Sermones, i Tractatus in Ioannis evangelium e l’Enarrationes in Psalmos.
Prima di entrare nella trattazione specifica del nostro argomento, desidero accennare alcune caratteristiche proprie della predicazione del vescovo d’Ippona.
Scrive Van der Meer: “Tutti gli scritti di Agostino rivelano una personalità straordinaria; il loro tono è sempre estremamente originale; ma le sue prediche sono veramente uniche: qui Agostino non rassomiglia a nessuno (…) Mai si è avuta una predicazione così ‘cordiale’ e insieme brillante, come in questo angolo d’Africa”.
Nel libro IV del De doctrina christiana, delinea i tratti essenziali che caratterizzano l’eloquenza cristiana e il profilo del predicatore. Quest’ultimo dovrà attingere dalla Bibbia come da una sorgente inesauribile non solo i contenuti ma anche la metodologia essenziale dell’arte del comunicare. Non l’eleganza della parola sarà l’obiettivo del predicatore cristiano, bensì i contenuti al cui servizio sarà piegata anche l’ars oratoria. La necessità di comunicare ha esercitato su Agostino una pressione così forte da demolire in un sol colpo l’impalcatura della vecchia retorica, la quale ignorava il problema della comunicazione e aveva concentrato tutti i suoi sforzi nel perfezionare in forma maniacale l’aspetto formale del discorso attraverso un interminabile numero di norme[1]. Agostino aveva intrapreso il ministero di predicatore superando non poche difficoltà. Egli, non dimentichiamolo, era stato un contemplativo e, in piena sintonia con la tradizione plotiniana, aveva considerato il discorso quasi un’apostasia dell’anima. In un’omelia tenuta a Ippona, forse in un anniversario della sua ordinazione episcopale, fa emergere questa difficoltà dalla quale è uscito fuori solo spinto dal dovere, proprio del pastore d’anime, di nutrire il popolo di Dio con il cibo della Parola di Dio e non limitarsi a esserne il custode:
Il servizio della predicazione, esercitato per quasi quarant’anni, lo segnò in modo indelebile e lo pose sempre all’interno del popolo cristiano, rendendolo sempre pronto a captarne i sentimenti, le emozioni, le paure e le aspirazioni. La Parola di Dio, che egli lungamente meditava, studiava, a volte anche con il confronto delle diverse traduzioni, per meglio coglierne l’intensità e le sfumature di significato, attraverso la sua parola esigente e affabile, si riversava in mille rivoli nel cuore degli ascoltatori. Con incredibile padronanza del testo, in una sola omelia, era in grado di percorrere tutta la Bibbia, da Paolo alla Genesi, passando attraverso i Salmi, creando collegamenti e richiami verbali particolarmente adatti ad un uditorio, in gran parte analfabeta, abituato a imparare a memoria semplicemente ascoltando. Tanta e tale era la sua capacità da riuscire a trasmettere nella mente dei suoi ascoltatori l’idea che la Sacra Scrittura è un tutto organico, un’unità che si identifica con il Verbo di Dio. In modo particolare questa unità balzava fuori in tutto il suo splendore allorquando commentava i Salmi. La bellezza delle prediche sui Salmi non trova equivalenti in tutta la letteratura patristica. Ogni Salmo veniva presentato all’attenzione dei fedeli come un microcosmo di tutta la Bibbia. I sentimenti ivi riflessi, rimbalzando nell’animo di Agostino, si riversavano sull’uditorio in una inscindibile saldatura di forma e di contenuto. Agostino, infatti, viveva egli per primo, le emozioni che trasmetteva nel commentare i Salmi. Questi, infatti, venivano presentati come le emozioni stesse di Cristo trasmesse alle sue membra:
“dobbiamo sentire ormai nota e familiare, come fosse la nostra, la sua voce
in ogni salmo, sia che canti o che gema, si allieti nella speranza oppure sospiri
per qualche cosa. Non è necessario dunque trattenerci a lungo per chiarirvi chi
è che qui ci parla; sia ciascuno di voi nel Corpo di Cristo, e qui parlerà”[2].
Le Enarrationes in psalmos rappresentano la più importante raccolta omiletica di S. Agostino e il commento ai salmi più imponente di tutta la letteratura patristica. Iniziata quando ancora era giovane vescovo fu completata tra il 415 e il 417. Per occuparsi del commento ai salmi Agostino sospese la stesura altre opere già avviate, adducendo il seguente motivo:
“Per il momento non vorrei occuparmi nemmeno dei libri Sulla Trinità
che da tempo ho fra le mani ma non ho potuto ancora terminare perché
mi costano molta fatica e penso che possano essere capiti solo da poche
persone; mi premono maggiormente quegli scritti che spero saranno utili
a un pubblico più vasto” [3].
Ogni sua esperienza intellettuale più profonda veniva pazientemente e genialmente adattata alla vita quotidiana delle persone più semplici. Nel Sermone 339, già citato, egli esprime con particolare vigore il suo modo di predicare:
“ Oggi dobbiamo offrire il pasto ai nostri poveri, ai poveri come noi e con
loro va condiviso il sentire umano: ma quanto a voi, le mie vivande sono
queste parole. Non riesco a nutrire tutti con il pane materiale e visibile:
di quel che sono nutrito, di quello io alimento; sono un servo, non sono
un padre di famiglia; pongo davanti a voi di quel che io vivo, del tesoro
del Signore, delle vivande di quel Padre di famiglia che, da ricco che era,
si è fatto povero per noi, perché noi diventassimo ricchi della sua povertà
(2 Cor 8,9)”[4].
Man mano che avanzava nell’età e nell’esperienza pastorale, la sua predicazione diveniva sempre più essenziale, sempre meno argomentativa e sempre più esortativa. Era ben consapevole che il predicatore non può trasmettere alcuna conoscenza, alcuna luce, ma solo aprire delle possibilità nel cuore e nella mente dell’ascoltatore per metterlo nelle condizioni di ricevere la luce che solo il Maestro interiore può comunicare:
“Abbiamo ascoltato e abbiamo risposto concordi, ed unanimi abbiamo cantato
al nostro Dio: Beato l’uomo che tu avrai istruito, Signore, e avrai ammaestrato
con la tua legge (Sal 43,12). Se mostrate interesse con il silenzio, ascolterete.
La sapienza non trova posto dove manca la pazienza. Noi parliamo, ma Dio
istruisce; noi parliamo, ma Dio ammaestra. Infatti non è detto beato colui al
quale insegna l’uomo, ma colui che avrai istruito tu, Signore. Noi possiamo
piantare e irrigare, ma è proprio di Dio dare il crescere”[5].
E veniamo all’esegesi della pericope del giovane ricco. Nessuna teorizzazione sistematica sull’argomento, tranne qualche approfondimento sull’avidità o sull’elemosina[6]. Il numero delle volte in cui Agostino commenta l’episodio evangelico è rilevante: oltre cinquanta i riferimenti espliciti. In alcuni scritti, troviamo appena un’allusione di passaggio, in altri, l’episodio diventa il punto di avvio per riflessioni multiple, in altri scritti, ancora, Agostino ne fa la linea guida per sviluppare riflessioni sul senso cristiano della ricchezza e della povertà. Numerose altre volte il rifiuto del giovane ricco a seguire il Signore, costituisce l’occasione per dare risalto alla testimonianza di tanti cristiani, fra i quali anche dei ricchi, che, invece, hanno seguito il Signore e hanno rappresentato una delle pagine più belle della storia della Chiesa.
L’episodio del giovane ricco diventa, per Agostino, l’occasione per proporre ai suoi fedeli i punti irrinunciabili della vita cristiana. Dall’insieme dei testi si può ricavare un vero e proprio progetto di vita cristiana.
Il vescovo d’Ippona guarda alla pericope nella versione di Matteo (19, 16-29). Tale scelta, certamente non dettata da motivi di stretto ordine testuale, risponde maggiormente alle esigenze dell’esegesi agostiniana, in gran parte finalizzata alla predicazione e alla catechesi. Così nessuna volta Agostino allude a Mc 10,21 dove si dice, a proposito di quel giovane ricco, che Gesù fissatolo, lo amò[7]. I temi sui quali Agostino ritorna con frequenza tutte le volte che si riferisce alla pericope sono, in genere, la vita eterna, l’osservanza dei comandamenti, la beatitudine, la rinuncia ai beni, l’aiuto ai poveri, la sequela e il tesoro in cielo. Il testo di Matteo dà a questi aspetti un risalto più immediato e centrale, omettendo altri dettagli narrativi presenti in Marco e in Luca[8].
Il vescovo d’Ippona, rispetto ai Padri precedenti, se da una parte si colloca come un punto d’arrivo di una lunga e consolidata tradizione esegetica, dall’altra parte, apre all’interpretazione del brano evangelico nuove prospettive.
L’obiettivo che personalmente mi sono proposto è tentare di intercettare nel commento agostiniano, pur nella continuità con l’esegesi patristica precedente, aspetti innovativi e verificare se l’ampliamento di orizzonte e la molteplicità di significati che Agostino ricava dalla pericope indeboliscono la radicalità del messaggio di Gesù o piuttosto non colgono quegli elementi che, non solo al vescovo d’Ippona, ma anche alla Chiesa di oggi, sembrano irrinunciabili per la vita cristiana.
L’attualità del pensiero agostiniano in materia con la vita cristiana di oggi lo vedremo nella prossima riflessione.
Vediamo solo due temi che possono essere enucleati attraverso il commento alla pericope: il primo, la vera vita è la vita che è insieme felice e eterna; il secondo, l’uso dei beni.
- La vera vita è la vita che è insieme felice e eterna.
A quel ricco Gesù dice: Se vuoi entrare nella vita; non dice “vita felice” perché non può essere felice quella vita che è piena di miserie e avrà un termine, ma neppure dice “vita eterna”, perché vita eterna è anche quella vita piena di tormenti. Il termine vita, in questo caso, comprende la vita felice e la vita eterna insieme. Commenta Agostino:
“Quindi, quanto alla vita, che è degna di questo nome, così che
si chiami vita, non si tratta che della vita felice; e non è felice se
non è eterna”[9].
La corrispondenza della vita felice con la vita eterna spinge Agostino a scavare nei sentimenti che accompagnano la richiesta del giovane ricco al Signore: “Maestro buono che devo fare per ottenere la vita eterna?”. Una simile domanda non aveva nell’animo di quel giovane i presupposti necessari per avviare un vero dialogo con Gesù; essa era dettata piuttosto dalla paura di morire[10]. Pur rispecchiando un bisogno innato in ogni essere umano, quale la necessità insopprimibile di salvaguardare la propria vita per il valore che essa assume, semplicemente come vita, quella domanda era viziata in radice in quanto considerava come vita eterna il prolungamento di una vita fatta di piaceri che potevano essere goduti grazie alla disponibilità di ingenti ricchezze. Quel ricco era già felice per le sue ricchezze ma era anche angosciato sapendo di doverle lasciare. Era consapevole, cioè, che non si è veramente felici se si deve morire:
“Non volendo morire, si informò della vita che non ha fine”[11].
E chiede al Signore che cosa fare per prolungare all’infinito la propria vita, avere la vita eterna nella quale continuare la sua vita di ricco gaudente. La tristezza che raggiunge il cuore e il volto di quel giovane dopo la risposta di Gesù è la prova più evidente di quanto quella domanda fosse solo un surrogato di domanda, in realtà voleva essere solo un tentativo per ottenere da Gesù un suggerimento che rendesse realizzabili le proprie ambizioni. Quel giovane aveva identificato le ricchezze con la vita felice, pensava che il miglior modo di vivere era possedere ricchezze. Avrebbe dovuto, forse, riflettere un po’ sulla paura che si era impossessata di lui, la paura della morte, sulla morte stessa dalla quale le sue ricchezze non lo avrebbero di certo sottratto. Quel giovane è così fiducioso di ricavare felicità dalle proprie ricchezze a tal punto da chiedere a Gesù la formula magica per prolungare all’infinito un simile incantesimo. In situazioni del genere non si riesce più a capire se le ricchezze servono per vivere o la vita serve per le ricchezze[12].
In sintesi le riflessioni di Agostino ricorrenti nel commento alla pericope sono più o meno di questo genere:
– Vuoi veramente essere e rimanere ricco? Ebbene devi pretendere che i tuoi beni e la tua vita acquistino il valore più alto possibile. Sarà la fede a dare il valore più alto.
– Ricchezza e vita devono sempre stare insieme; la loro unione produce quel congegno che si chiama felicità.
– L’abbaglio o la colossale cantonata qual è? Scambiare la vita di piaceri con la vita felice.
– Occorre in questa vita intercettare la vita vera come ha fatto il cieco di Gerico o Zaccheo.
-Preferire una vita buona a una vita lunga. La vita buona anche se breve sulla terra si prolungherà in cielo. La vita buona è una specie di riscatto del tempo, ed è l’unica strada che conduce alla vita vera:
“La felicità terrena è scarsa ricompensa a una vita buona.
Vivere bene qui non ha lo stesso valore di ciò che sono i
tuoi desideri, e se desideri cose (terrene), non vivi nemmeno
bene. Se vuoi mutare vita, muta i desideri. Tu serbi fede a
Dio e ciò per essere felice in terra. Ma sarebbe questa la
ragione di serbar fede a Dio? Così poco vale la tua fede?
Così poco la stimi? A tanto poco la riduci?” [13].
E ancora:
“E allora perché non ami la vita in modo che sia anche buona,
quando, pur cattiva, la preferisci a tutti gli altri beni? Tu la vorresti
lunga, anche se cattiva. Fa’ piuttosto che sia buona, e non aver
paura se sarà breve” [14].
– Quali motivi sottostanno all’agire umano? Per Agostino si agisce spinti dal desiderio di felicità, di vita beata. Al comune desiderio di felicità si cerca di venire incontro con mezzi diversi. Cercare la felicità con mezzi sbagliati è come cercarla in un luogo sbagliato. Il luogo sbagliato è la condizione di precarietà (lo avevano capito anche i filosofi pagani); il luogo giusto è ciò che è durevole. La felicità, dunque, non può coincidere con i beni terreni.
L’ equivalenza tra vera vita con vita eterna costituisce, per Agostino, la chiave interpretativa principale della pericope ma rappresenta anche un aspetto ricorrente della sua predicazione.
Agostino, come già abbiamo avuto occasione di constatare, non privilegia, della pericope, una lettura di stampo pauperistico, non vi intravede alcun manifesto di riscatto sociale del povero. La stessa parola “povero” o “povertà” non è mai utilizzata in senso unilaterale.
Un solo significato non è mai sufficiente a cogliere il senso cristiano del termine “povero”. Se da una parte è evidente l sua accezione negativa in quanto indica indigenza, privazione di cose materiali, dall’altra parte può rivelare un aspetto positivo nella misura in cui la carenza materiale favorisce l’arricchimento spirituale. I termini “ricco” e “povero”, nell’accezione cristiana, assumono significati complessi e interscambiabili. Agostino è particolarmente attento a cogliere nell’estrema antiteticità anche la paradossale complementarietà. In fondo, poveri e ricchi sono realtà esistenziali tanto lontane e nello stesso tempo tanto vicine da confondersi come si può confondere il sogno con la realtà, appena risvegliati. A tal proposito, in un’omelia, tenuta a Cartagine nell’anniversario dei Martiri di Tuburbi, dice:
“La solennità dei martiri e il giorno del Signore c’invitano
a parlare della scarsa stima che dobbiamo avere della vita
presente e della speranza del mondo futuro…
Questa vita è come un sogno. E codeste ricchezze passano
come nei sogni….
Talvolta anche il mendicante accasciato a terra, tremante di
freddo, quando è preso dal sonno, sogna tesori. Soprassalta
di gioia, si fa superbo, si vergogna di riconoscere suo padre
in quell’uomo ricoperto di cenci. Fino a quando egli non si
sveglia è ricco. Mentre dormiva aveva di che godere, falsamente.
Quando avrà finito di dormire trova ragioni di cui dolersi, realmente.
Ebbene il ricco, quando muore, è simile a quel povero che si sveglia
dopo aver sognato tesori”[15].
I ricchi, al tempo e nella società di Agostino, sono pochi ma immensamente ricchi e i poveri sono tanti e immensamente poveri. Il vescovo d’Ippona conosce bene gli uni e gli altri[16]. Tutta la sua azione pastorale è costituita da un instancabile impegno a far sì che ricchi e poveri, nella Chiesa, diventino una sola famiglia, i primi coloro che si assumono la responsabilità nei confronti dei secondi. Agostino è convinto che, in quanto vescovo degli uni e degli altri, debba svolgere le mansioni di ambasciatore e di avvocato dei poveri presso i ricchi:
“Date dunque ai poveri; ve ne prego, vi esorto, ve lo raccomando,
ve lo comando. Date ai poveri tutto ciò che vorrete. Non terrò
nascosto alla Carità vostra il motivo per cui ho avuto bisogno di
farvi questo discorso. Da quando io sono qui, mentre mi reco in
chiesa e me ne torno, i poveri m’implorano d’intervenire in loro
favore dicendomi di raccomandarvi di dar loro qualcosa”[17].
Per Agostino, come per i Padri della Chiesa in generale, il bersaglio da abbattere non è la ricchezza in sé. D’altra parte la povertà in sé ( come privazione di beni) non è un valore da esaltare. Il bersaglio è piuttosto l’arroganza, la superbia, che sono appannaggio soprattutto dei ricchi ma anche dei poveri. In Africa ricchi e poveri vivono fianco a fianco. I poveri invidiano e ammirano i ricchi da cui dipendono[18]. Agostino “ammonisce senza sosta gli avidi e riabilita i poveri, predica la precarietà della ricchezza e il vangelo della povertà. Potremmo dire che non ci siano altri temi che ricorrano così spesso, come se esso fosse il cancro dell’epoca che minava il corpo sociale dell’Africa e di tutto il mondo antico” (Hamman)[19].
L’episodio del giovane ricco diventa come una finestra dalla quale Agostino invita i suoi fedeli a contemplare la varietà del panorama della vita cristiana. Da ogni versetto della pericope egli ricava le tessere che compongono il mosaico dell’intero insegnamento evangelico. Agostino è convinto che l’invito di Gesù, lasciato cadere dal giovane ricco, ha messo in moto modelli di vita che hanno caratterizzato la Chiesa come tale, non solo alcuni gruppi di asceti. L’aiuto ai poveri si configura in un quadro teologico ben preciso: la sequela di Cristo. Occorre affidare a Cristo non solo la propria vita ma anche i propri beni. E su questa strada sono chiamati tutti i cristiani, non solo gli asceti, né i cristiani devono essere costretti a diventare tutti asceti, come, invece, sosteneva Pelagio. L’aiuto ai poveri diventa così un indicatore della qualità della vita cristiana. In tal senso è utile segnalare il testo del De fide et operibus. L’invito di Gesù al giovane ricco, di vendere le sue ricchezze e il ricavato darlo ai poveri, trova il suo fondamento nella fede. Chi pratica i comandamenti non può agire che nella fede e la fede, a sua volta, agisce spinta dalla carità. La fede non genera modelli univoci di vita cristiana: nella misura in cui la carità è vissuta con slancio di totale dedizione a Dio è come un edificare sul fondamento con oro, argento e pietre preziose; l’aiuto al povero coincide con un atto di perfezione cristiana. Ma si può dare ai poveri anche in un modo meno perfetto e tuttavia sempre cristiano, allorché l’attaccamento alle ricchezze, provocando un’affezione nei confronti di esse, rende doloroso il privarsene per aiutare i poveri. In questo caso è come edificare sul fondamento con legno, fieno e paglia[20]. Ciò che è importante è che anche in questo caso il povero viene aiutato. Il dolore del distacco dai propri beni, se da una parte rivela una fede impregnata di materialismo, dall’altra parte svolge il ruolo di agente purificante. Il dolore che è l’effetto dell’attaccamento alle ricchezze diventa causa di una fede purificata. L’aiuto ai poveri diventa anche un aiuto a se stessi, contribuisce a purificare la fede e ad alzare il livello di vita cristiana.
Ma quale significato assume l’aiuto al povero? Agostino ha sempre pronte, nella sua predicazione, delle immagini, che forse potrebbero irritare i sociologi e i politici. Non sembra molto interessato al riscatto sociale del povero. Del resto sarebbe chiedere troppo a un uomo del tardo antico, anche se della statura culturale e morale del pastore di Ippona. Nessuno degli uomini di Chiesa di quel tempo ha mai pensato che la carità cristiana fosse finalizzata ad abolire la povertà dalla faccia della terra.
Eppure, Agostino, come Ambrogio, Basilio, Giovanni Crisostomo e soprattutto Pelagio, è convinto che l’aiuto al povero equivale ad una “restituzione” di ciò che, con complessi meccanismi, gli è stato sottratto.
“Esamina quante cose (Dio) ti ha date e da quelle togli quel
che a te è indispensabile: il resto, quel che ti rimane di superfluo,
è necessario agli altri. Il superfluo dei ricchi è necessario ai poveri.
Quando si posseggono cose superflue si posseggono cose che
(di diritto) spettano agli altri”[21].
Convinzioni del genere scaturiscono da un concetto di proprietà che contiene anche il concetto della destinazione universale dei beni. L’unico e vero proprietario è Dio.
Oltre che essere un dovere, il dare al povero diventa anche un modo per investire al meglio le ricchezze terrene. Il ricco, infatti, nell’aiutare il povero, non si priva affatto dei suoi beni, bensì li conserva in un luogo più sicuro. Il povero è la casa dove il ricco può spedire le sue ricchezze per ritrovarsele nell’altra vita. E’ questo esattamente quello che Gesù cercava di dire a quel giovane ricco: “Se vuoi essere perfetto, và, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo” (Mt 19,21). Agostino legge in un’unica soluzione il “dare ai poveri” con “e avrai un tesoro in cielo”. Dare ai poveri, secondo la sequenza delle parole di Gesù nella pericope, equivale a “mettere da parte”, conservare i beni[22]. Il ricco, invece, mette al sicuro le sue ricchezze riponendole in una buca sottoterra:
“Oh, che coscienza più elevata e più pulita avresti, se ti fossero
conservati in cielo!”[23].
Sulla scia del versetto 21 della pericope, Agostino introduce un’altra immagine per confermare l’esito altamente vantaggioso del “dare ai poveri”. Questi ultimi sono i facchini, ai quali i ricchi affidano le ricchezze come un bagaglio che sarà portato in cielo[24].
La cupidigia spinge ad ammassare ricchezza la dove c’è il tarlo e ci sono i ladri che rubano; il Signore, invece, esorta ad accumulare ricchezza in cielo dove non c’è né ruggine né ladri (cf Mt 6,19-21).
A edificazione dei fedeli Agostino racconta un episodio che egli afferma essere accaduto realmente:
“Un sant’uomo di modeste condizioni vendette tutto il suo
patrimonio per i bisogni della propria casa. Ma poiché era
timorato di Dio, prese dal capitale ricavato dalla vendita cento
monete di rame e le distribuì ai poveri per destinare il rimanente
alle necessità della propria casa. Perché fosse messo alla prova
s’introdusse da lui un ladro ed egli perse tutto il denaro ricavato
dalla vendita di tutta la sua roba. Lo fece apposta il diavolo perché
quello si pentisse d’aver dato qualcosa ai poveri ed esclamasse :
‘Ma Signore, a te piacciono solo i malfattori. Gli uomini commettono
il male e s’arricchiscono. Io invece ho fatto un’opera buona e ho
perduto tutto’. Quel tale però non disse così e, poiché era una persona
quadrata, anche dopo aver subito quel rovescio restò in piedi. Pur
avendo dunque perduto tutto il denaro ricavato dalla vendita della
sua roba e di cui aveva dato cento monete ai poveri, ‘Me infelice,
disse, perché non ho dato l’intera somma ai poveri! Ciò che ho dato
non l’ho perduto; ho potuto solo perdere ciò che non ho dato!’”[25].
[1] Cfr. P. BROWN, Agostino, Torino, Einaudi, 1971, p. 253.
[2] In ps. 42,1.
[3] Ep. 169,1,1, XXII.
[4] Sermo 339,4.
[5] Sermo 153, 1.
[6] Cf. Sermo 60: NBA XXX/1, pp. 211-221; 85: NBA XXX/1, pp. 649-657; 86: NBA XXX/2, pp. 11-25; 177: NBA XXXI/2, pp. 879-897. CF P. VISMARA CHIAPPA, Op. cit., pp. 2-3.
[7] Cf. Ivi, p. 475.
[8] Per uno studio sul rapporto fra le tre versioni della pericope di Marco, Matteo e Luca cf V. FUSCO, Povertà e sequela, Paideia, Brescia 1991.
[9] Sermo 150, 8,10: NBA XXXI/1, p. 459.
[10] Sermo 306,6,6: NBA XXXIII, p. 555.
[11] Sermo 306, 7, op. cit., p. 555.
[12] Cf Sermo 345, 2: NBA XXXIV, p. 71.
[13] Sermo 345, 7: op. cit., p. 81.
[14] Cf Sermo 16,2: NBA 4seohunt.com/www/www.luigimanca.info. XXIX, 291.
[15] Sermo 345, 1: NBA XXXIV, pp. 69-71.
[16] Per una descrizione dettagliata della situazione sociale, in particolare sulla povertà e la ricchezza, nella Chiesa africana al tempo di Agostino: cf A. HAMMAN, La vita quotidiana nell’Africa di S. Agostino, Jaca Book, Milano 1989, pp. 99-127.
[17] Sermo 61, 12,13: NBA XXX/1, p. 243, da notare la forza espressiva del testo latino: “ Date ergo pauperibus: rogo, moneo, praecipio. Iubeo”.
[18] Cf En. In ps. 32,18: NBA XXV, p. 601; En.in ps..48,10: NBA XXV, p. 1209.
[19] A. HAMMAN, Op. cit.., p. 99.
[20] De fide et op. 16,27: NBA VI/2, pp. 741-743.
[21] In ps. 147, 12: NBA XXVIII, p. 825.
[22] Cf Sermo 38,7: NBA XXIX, p. 705.
[23] Sermo 38,8, op. cit., p. 707.
[24] Sermo 38,9, op. cit., p. 709.
[25] Sermo 107/A, 6: NBA XXX/2, p. 347.